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Libbero, mio padre: intervista a MANRICO LIBERATI

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Sono passate cinquantasette primavere da quel lunedì, da quel tragico 5 marzo del 1962. Era de Carnevale recita una poesia, una giornata piovosa, grigia e, da allora, indimenticabile. Libbero, con due b perché a Terni quel nome si pronuncia cosi quasi per renderlo più importanteal secolo Libero Liberati, partì per quella girata che tutti abbiamo raccontato mille volte nel corso degli anni, ognuno di noi arricchendola di particolari, di semplici chiacchiere ascoltate, di ipotesi più o meno sostenibili ma che, in ogni caso, non hanno cambiato il finale della storia. Lu ternano volantelu cavaliere d’acciaio, l’amico di  tutti, incontrando la morte su quella stessa strada che aveva percorso all’infinito, e che gli era stata compagna nei suoi inizi di corridore, cosi  era uso definire quegli eroi fasciati da una tuta nera che aveva l’ardire di pensarsi una corazza, protetti da un improbabile casco a scodella e animati da tanta sete di gloria, è riuscito in qualcosa che molti sognano ma che invece a pochi riesce: vivere oltre il tempo. Già, il tempo. Quanto ne era passato da quel trionfo mondiale di Monza a quella promessa ricevuta ad Arcore, e quanto deve essere stato lungo e difficile affrontare, giorno dopo giorno, quel lustro fatto di fedeltà ad una marca, la Gilera, che invece lo aveva tradito ritirandosi dalle competizioni. Poco conta saperlo ormai. Noi, il Libbero Campione, lo abbiamo sempre raccontato attraverso le sue vittorie, i record, le Coppe d’Oro Shell di Imola, i titoli italiani vinti e quell’iride conquistato nel ’57; lo abbiamo fatto filtrando il tutto con i nostri occhi di appassionati, di sportivi, di amici, di ternani ma mai lo abbiamo fatto guardandolo con quelli che invece sono gli occhi di un bambino. Com’era Libbero visto da un bimbo che, quel 5 marzo del 1962, aveva soltanto otto anni e che su quella curva di Cervara non perse un Campione ma diede l’addio per sempre al suo papà?

Era un giorno strano, piovoso e grigio. Avevo otto anni. Saranno state le undici e mezza o forse mezzogiorno quando in casa arrivarono Primo e Lucia, due amici di famiglia che vivevano a Marmore. Papà aveva appena terminato di fare colazione e quella fu l’ultima volta che lo vidi. Scese in officina, prese la moto e lo sentii partire. Passò poco più di un’ora quando qualcuno, non ricordo chi, suonò alla porta e mi disse “Vieni, ti porto a vedere una cosa …” Arrivammo a Cervera e li trovai  la moto adagiata sull’asfalto e tante macchie di sangue. Non capii subito, non mi resi conto del dramma. Avevo perso mio padre per sempre ma tutto prese forma soltanto nei mesi successivi quando a poco a poco, il nostro mondo, il mondo della mia famiglia, iniziò a cambiare.  

La chiacchierata con Manrico Liberati, il figlio più piccolo di Libero inizia da qui; l’altro, Giancarlo suo fratello, ha condiviso un destino simile sotto molti aspetti a quello del Campione ternano, perdendo anche lui la vita in un incidente stradale sempre in moto quando, percorrendo una curva, il cavalletto laterale lasciato inavvertitamente aperto, ne causò la caduta.  

Dopo la morte di papà tutto iniziò a cambiare rapidamente. Nulla era più lo stesso ed anche la gestione economica della famiglia non era semplice e questo per tanti motivi. Può sembrarti strano ma portare un cognome ingombrante come il nostro, a Terni, delle volte non è stato d’aiuto. Tra l’altro io ero un bambino con qualche problema di dislessia e in tutto questo Giancarlo, mio fratello maggiore, rappresentò per me quell’anello di congiunzione tra la sicurezza che ti da un padre e la necessità di imparare a vivere e camminare da solo. Mi ha insegnato tutto ciò che so, anche professionalmente. Erano passati otto anni da quel maledetto giorno di marzo e perderlo fu terribile. Ho impiegato tanto tempo per riprendermi.

Com’era Libbero come padre?
Era un padre incredibile. Lo ricordo con un carattere forte, deciso e determinato. Un uomo per il quale una parola era poca e due erano troppe ma che sapeva essere anche tenero; gli piaceva scherzare ed a volte lo faceva in maniera pesante. Era l’amico di tutti. Non tornava mai da una gara o da un viaggio senza un regalo e quando era a Terni, io passavo tutto il mio tempo con lui. Al bar, a passeggio, in officina non lo lasciavo un attimo. Per me era una sicurezza, una protezione. Quando uscivamo insieme, quando mi portava in moto seduto sul serbatoio della sua Aermacchi Chimera o su quello della Gilera 350, mi sentivo orgoglioso. Una volta andando a Spoleto, percorrendo le curve in discesa dopo la galleria della Somma, vidi le pedane toccare l’asfalto formando trucioli di gomma. Non ho avuto paura neppure un attimo perché io mi sentivo tra le braccia di Dio. Era anche molto scaramantico, ma in fondo lo sono tutti i piloti. Se gli attraversava un gatto nero era capace di aspettare ore che qualcuno potesse passare prima di lui. Una volta, condividendo una camera d’albergo con Remo Venturi, lo redarguì perché aveva poggiato tuta e casco sul letto, cosa che assolutamente non andava fatta. Certamente Remo, in sua presenza, non lo fece più.

Ma la tua percezione di bambino ti permetteva di renderti conto che tuo papà era un Campione?Inizialmente no. Sai quando mi resi conto che papà era qualcosa di diverso? A Natale del ’57, l’anno in cui vinse il titolo. Ero davvero piccolo ma ricordo che casa si riempì improvvisamente di talmente tanti regali arrivati da tutto il mondo che per quanti dolci, cesti, frutta, bottiglie, sembrava più di vivere dentro un negozio che in un appartamento. Ma il ricordo più bello, del quale ho chiesto nel tempo conferma a mia madre, fu quando mi fece percorrere il giro d’onore al Circuito dell’Acciaio; io e lui cinti dalla corona d’alloro tra migliaia di persone che lo acclamavano. Per anni ho pensato fosse stato soltanto un sogno sino a quando, raccontandolo appunto a mia mamma, lei si stupì di quanto chiaro e dettagliato fosse quel ricordo. Ho provato la stessa sensazione tanti anni dopo quando, sempre durante una rievocazione del Circuito dell’Acciaio, credo fosse il 2002, percorsi parte di quel tracciato guidando la vettura che faceva da apripista. Mi è sembrato di rivivere un film.

Ancora oggi Libbero rappresenta molto per Terni e per i ternani; come spieghi tutto questo?
La nostra famiglia aveva origini spoletine ma papà era nato e cresciuto a Terni, si sentiva profondamente ternano ed era orgoglioso di esserlo. Amava la sua città  e provava una sincera riconoscenza verso i suoi concittadini perché sapeva benissimo che l’opportunità di diventare un corridore prima ed  un Campione poi, gli era stata regalata da persone umili come lui, uomini e donne che erano arrivati a fare una colletta per acquistare e regalargli la sua prima moto. Tutti loro è come se fossero stati seduti insieme lui sul sellino di quella Gilera. Migliaia di ternani che lo spingevano e le sue vittorie erano anche per  loro. La sua felicità era quella di vedere la gioia negli occhi dei suoi amici. Tutto questo si è tramandato nel tempo e con altre sfumature si è ripetuto anche con Paolo Pileri, ma la città era già diversa. Forse, se tutto questo è ancora vivo, è perché Terni è una città che ha bisogno di tornare a sognare.

A proposito di Gilera, un amore ed una fedeltà oltre ogni limite.
“Sono e resterò per sempre un corridore della Gilera!” Papà lo ripeteva sempre. Sai, a volte sono arrivato a pensare che se non fosse stato cosi fedele alla Casa di Arcore, forse quel giorno non sarebbe morto perché se la sua carriera sarebbe stata differente. Ho ancora a casa la lettera del conte Agusta che accompagnava un assegno in bianco per il suo ingaggio che papà però, restituì al mittente ringraziandolo. Anche la Honda si interessò a lui ed anche altri marchi ma per lui esisteva soltanto la Gilera e non l’avrebbe mai tradita.  

Tuo papà ha battuto tanti Campioni in un epoca in cui le corse erano molto differenti a come le vediamo oggi: com’era il suo rapporto con loro?
Di grande rispetto in pista e di amicizia fuori. Sai che noi avevamo un cane che si chiamava Duke e lui ne aveva uno che si chiamava Libero? Ma non poteva che essere cosi perché in quei tempi era tutto differente. Il titolo che si vinceva era quello di Campione del Mondo di classiche su strada e sul trofeo c’erano i nomi di tutti quei piloti che lo avevano vinto prima di te. Quella coppa è a casa mia e Libbero fu l’ultimo a conquistarla.

In cosa ti senti simile a lui?
Mia mamma, che purtroppo non c’è più, diceva sempre che guidavo come un cane, esattamente come lui. A parte questo però, credo di aver ereditato il suo carattere cosi come la convinzione che con determinazione, lavoro, costanza e disciplina puoi raggiungere qualsiasi traguardo.

Tu hai tre figli e due di loro corrono in moto, in pratica è la terza generazione dei Liberati piloti.
Giancarlo e Giulio corrono con i Supermotard e ti confesso che quando scendono in pista  sono più apprensivo io della loro mamma. Vedere però quanto orgoglio c’è in loro per il cognome che portano, mi rende davvero felice.

Qualche tempo fa intervistando Danilo Petrucci, gli ho chiesto in quale epoca gli sarebbe piaciuto poter vivere se non nei giorni nostri e lui, senza esitare, mi ha risposto: “Negli anni di Libbero”. Mi ha confessato che avrebbe voluto correre insieme a lui anche per incarnare quelle emozioni che puoi provare soltanto se rappresenti i sogni di una intera città. Cosa pensi di tutto questo?
Quando mio padre correva, Terni era una città diversa, una città che soltanto da pochi anni era uscita dalla tragedia della guerra. Si, penso che i ternani avessero bisogno di sognare e di prendersi una rivincita su tante sofferenze e dolori e Libbero è stato capace di dargli tutto questo. Oggi è differente ma sportivamente parlando credo che Danilo abbia le qualità e le capacità per fare molto bene. Questa città può continuare a sognare insieme a lui.

Il tempo è volato e la chiacchierata si chiude con la promessa di Manrico e Laura, sua moglie, di rivederci presto. Tutti noi continueremo a scrivere di Libbero  e delle sue gesta, aggiungendo qualche particolare, qualche aneddoto, qualche pensiero perché forse ognuno di noi lo sente un po’ suo e se ne arroga il diritto. Una cosa è certa però: gli occhi velati di tristezza di quella che oggi è una persona adulta ma che allora era soltanto un bimbo, mi hanno fatto vedere si un Campione, ma ancor di più un grande uomo. Ciao Libbero

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