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Interamna History – 26

Terni, il primo fascismo e la nascita della provincia (Prima parte)

1922

La Terni uscita della Prima Guerra mondiale era un città che aveva contribuito in maniera importante alla causa bellica sia in termini di produzione industriale cosi come dal punto di vista del fronte interno, fornendo in questo caso ogni tipologia di supporto.

Di certo, a conflitto concluso, i ternani, al pari di tutti gli altri italiani, non vivevano di momenti facili anzi, tutto il contrario. Il dopoguerra fu un periodo storico caratterizzato da una pesante crisi economica data dal fatto che la richiesta interna in termini di consumi, non era assolutamente sufficiente a garantire all’industria nazionale quella produzione di generi necessaria alla sua stessa sopravvivenza e, conseguentemente, l’impiego di mano d’opera. Inflazione e crollo della lira fecero il resto. Chiaramente non erano soltanto gli operai a pagare le conseguenze di questa situazione ma anche la piccola e media borghesia che mai prima di allora si era dovuta confrontare con un tale scenario.  Anche le piccole conquiste socio-economiche acquisite, rischiavano in un attimo di andare perse. Ma il malcontento era altresì rivolto da parte del ceto medio verso la grande borghesia, ritenuta avida, approfittatrice ed incapace, fatti che finirono quindi per alimentare un malcontento sempre più tangibile verso la classe dirigenziale liberale, ritenuta non più in grado di gestire concretamente una situazione tanto complessa. Perdere il controllo, vedere compromessa la possibilità di mantenere un livello di vita socio-economica conquistato nei primi anni del secolo, finì quindi per giustificare la reazione fascista che ne seguì. Questa è senza dubbio una lettura molto schematica e semplicistica di quello che fu un periodo storico difficile, caratterizzato da mille differenti sfaccettature e situazioni, determinante poi per lo stesso futuro dell’Italia; certamente tralascia molti altri fattori contingenti che andrebbero approfonditi maggiormente ma, crediamo renda comunque bene l’idea di quelle che furono le basi per il ventennio fascista. In realtà quella del Fascismo era ormai una condizione consolidata perché già nel 1914, con la fondazione del Fascio d’azione rivoluzionaria da parte di Benito Mussoliniil supporto all’interventismo rispetto alla Prima Guerra mondiale era stato determinante cosi come al termine della stessa, il saper raccogliere e far proprio il malcontento di migliaia di reduci che si ritrovarono nella condizione di essere un peso per la società civile, non vedendosi neppure riconosciuto il contributo dato per la Patria ed essere additati come capro espiatorio da parte dall’opinione pubblica, altro non fece che alimentare un malcontento prima latente e poi, pian piano sempre più evidente. La triste storia dei reduci amati ed odiati in base alle esigenze del momento, è un qualcosa che si ritroverà in tante altre situazioni future come ad esempio nel post Vietnam. Nel biennio 1919-’20, l’Italia fu stravolta da quello che viene ricordato nei libri di storia come il biennio rosso, un periodo di forti contrasti sociali che portarono a lotte anche molto violente; lotte che non coinvolsero soltanto gli operai ma anche la parte più rurale del paese. Il culmine si toccò con l’occupazione delle fabbriche che in alcuni casi sfociò anche in un tentativo di autogestione delle stesse. E’ indubbio che Terni vivesse di una comunità operaia molto importante che, tra l’altro, aveva nel suo DNA una sua intrinseca vocazione sovversiva e tutt’altro che estranea alle lotte di fabbrica. All’interno di un siffatto scenario, crebbe inevitabilmente il peso sindacale e questo anche di fronte alla rottura generatasi tra l’allora Confederazione Generale del Lavoro e la USI. La nostra città non fu immune all’effetto biennio rosso come testimoniano gli innumerevoli episodi legati a quel periodo. Le lotte e le agitazioni non si limitarono alla fabbrica perché anche in campagna la situazione non era molto differente. Gli operai furono protagonisti di proteste, a volte violente, che ancora oggi vengono ricordate: le più eclatanti furono senz’altro quella del I maggio e quella del 28 giugno del 1920 durante la quale cinque di loro morirono colpiti dai carabinieri che spararono sulla folla senza nessun preavviso. Questa predisposizione alla lotta, unita ad una organizzazione che non è fuori luogo definire militare, permise però in futuro di reggere meglio che altrove l’onda d’urto della conquista squadrista della città. Terni era considerata la Manchester italiana ed era senza ombra di dubbio il primo centro industriale della regione. Gli operai considerati alla stregua di proletari sindacalizzati e politicamente attivi, erano dunque visti come sovversivi e antinazionali e per questo seguiti e controllati dal sistema di Pubblica Sicurezza. In realtà però, il tutto aveva una sua logica perché l’attività clandestina antiregime all’interno della Terni era ben radicata ed attiva. Quest’ultima, soprattutto agli inizi degli anni ’30, attuò una politica monopolistica rispetto alla vita pubblica attraverso la realizzazione di spacci alimentari, costruzione di quartieri abitativi, l’attuale Villaggio Matteotti inizialmente era stato concepito come il villaggio semirurale Italo Balbo, parchi giochi, strutture sportive, passando per il controllo delle attività dopolavoristiche e del tempo libero. Comunque la nomea che si era guadagnata Terni era quella di essere una isola rossa e, nel clima del momento, non era certamente qualcosa di piacevole ed accetabile. Per di più in occasione di alcune proteste, nell’estate del ’22, causa un attentato dinamitardo rimase ferito l’ing. Galassi poi, si assiste all’esplosione di un ordigno lungo la linea ferroviaria nei pressi di Marmore. Ad una prima reazione politica che puntò a sedare gli animi con la costituzione di una Camera del Lavoro affidata a Tullio Cianetti, fece seguito il 1° settembre una spedizione squadrista, la seconda in effetti, dove Camice nere provenienti da tutta l’Umbria e non soltanto, si concentrano in migliaia dando vita a scontri sin dalle prime ore della mattina. Venne aggredito Tito Oro Nobili, deputato socialista, vengono distrutte le Camere confederali e sindacalista del PSI, del PCI e della Cooperativa Concordia. Negli scontri muore anche Italo Maccarani, giovane squadrista ternano raggiunto da un colpo di pistola. Questi fatti si insinuano in un particolare momento che porterà, per alterne vicende, alla chiusura in estate delle Acciaierie per mancanza di commesse. Una situazione tragica che però sembrò essere magistralmente orchestrata e portata a favore dei dirigenti fascisti che in pratica si presero il merito di essere stati capaci di chiudere una vertenza tra le stesse Acciaierie e gli operai, il tutto dopo aver occupato lo stabilimento ed aver costretto i vertici dell’azienda a firmare un accordo. Fu così che il Fascismo si prese Terni atteggiandosi a difensore dei diritti dei lavoratori. In realtà , come detto, fu il frutto di una trattativa sottobanco, una trattativa parte della strategia pensata da Arturo Bocciardo, allora amministratore delegato delle Acciaierie di Terni. La fabbrica non uscì bene dal periodo bellico; le commesse per le forniture militari vennero meno e la crisi economica era stringente. Non per ultimo c’erano da riscuotere i crediti dovuti dallo Stato. Con Bocciardo però arrivò il supporto della Banca Commerciale Italiana che lo supportò con investimenti importanti i nuovi progetti messi in cantiere. Il piano era complesso ma, allo stesso tempo, aveva una sua logica: mettere insieme tutte le grandi industrie della Valnerina iniziando dalla Società degli Alti Forni e Fonderie di Terni passando per la Società per il Carburo di Calcio Acetilene ed altri Gas. Nacque così la Terni, Società per l’Industria e l’Elettricità che pur mantenendo come attività principale quella delle acciaierie, poteva anche contare con due grandi centrali idroelettriche, tre laghi artificiali, due insediamenti chimici ed oltre 3200 dipendenti. Siamo nel 1922; in Italia però le cose continuavano ad essere complesse. Ritornando ai fatti del ’20 e precisamente sulla manifestazione durante la quale negli scontri morirono cinque persone, alcune testimonianze si ritrovano raccontate alll’interno del libro Biografia di una Città scritto da Alessandro Portelli . Questo fu a luglio: ce stavano le pagliette, andavano tutti quanti con’ le scarpe bianche – racconta Agamante Androsciani – c’ero presente. Erano tre o quattro giorni che stavano in sciopero; gli oratori della Camera sindacale anarchica chiedevano lo sciopero ad oltranza, quest’altri della Cgil chiedevano, è vero, la ripresa del lavoro. Fatto sta, avevamo fatto quello sciopero e non avevamo preso niente. La piazza si era divisa in due tronconi, fra socialisti e anarchici … Era la sera del 28 giugno 1920. A un certo punto momento il comizio era finito, e erano cominciati ‘sti battibecchi , ‘st’insulti. Io dico, annamocene, se no qui … – descrive Remo Righetti – E allora l’anarchici “Volemo la rivoluzione!” Trattavano i socialisti, insomma, da pompieri, erano rivoluzionari,  loro. Mo’ c’era un gruppo d’anarchici, sei o sette, uno portava anche la rivoltella. Cominciarono a trattà male fra socialisti e anarchici. Poi ce fu uno, dice: Volete la rivoluzione? Allora avanti, venite con me!  Le cronache del tempo raccontano che la situazione degenerò a seguito dell’esplosione di un colpo di pistola ed in breve, cinquanta carabinieri, divisi in due squadre da venticinque ciascuna, si precipitarono verso l’imbocco di via Cornelio Tacito.  Senza nessun avviso, i militari aprirono il fuoco ad altezza d’uomo. Luigi Frascarelli, quattordici anni, Angelo Eleodori, venticinque, Lelio Palla, trentadue, morirono sul posto. Isidoro Taddei e Francesco Olmi morono successivamente in ospedale. Tanti i feriti dei quali le autorità fornirono un elenco comunque incompleto.

di Roberto Pagnanini

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