Quando i sogni diventano realtà
“E conserva i tuoi sogni – disse Miquel – Non puoi sapere quando ne avrai bisogno”.
Se a qualcuno di voi è capitato di leggere L’ombra del vento, romanzo ambientato nella Barcellona degli anni ’50 scritto da Carlos Ruiz Zafón nel 2001, si sarà certamente imbattuto in questa frase che, personalmente, condivido pienamente. Credo altresì lecito che vi domandiate cosa c’entrino i sogni con una rubrica all’interno della quale, normalmente, scriviamo di motori e di ternanità ma, per quello che mi riguarda, i sogni c’entrano eccome! E già perché come tutti voi anche io da ragazzo ne avevo di miei, e continuo ad avere anche a oggi, ed esattamente come tutti voi, anche io avrei dato tutto me stesso affinché si fossero realizzati. Io non ho un papà, uno zio, un cugino più grande o chissà chi che all’interno della mia famiglia fu pilota oppure meccanico o che avesse avuto a che fare con le moto ed i motori ma, ho avuto un nonno (Pietro) che si, fu presidente del Moto Club Terni negli anni ’50. Quelli erano gli anni di Libbero, dei sogni e delle speranze di una città, delle cambiali firmate per compragli una vera moto da corsa e sicuramente la passione che metteva nei suoi racconti, insieme a quella di tutta la mia famiglia, mamma compresa, per lo sport in generale e per il motociclismo in particolare, devono aver fatto il resto. Conservo ancora tutti i miei diari di scuola, non per mania ma perché lì dentro, su ogni loro pagina, c’è ancora tutta indelebile e visibile la voglia che avevo di diventare presto grande. La presunzione, e di certo l’ingenuità, faceva credere a tutti noi che per esserlo diventati era sufficiente lasciare a casa la cartella ed andare a scuola con i libri sotto al braccio legati con un elastico. Era normale perché quello lo facevano i grandi. E cosi, legati con un elastico, libri e quaderni ti facevano sentire più grande. Poi c’era l’ET3, i Levi’s 501, i camperos da tagliargli il tacco e da infilare sotto i jeans che non c’entravano. C’era quel piumino o quell’eskimo che ti faceva stare da una parte o dall’altra del muretto e ne mancava ancora di tempo per capire che, nella vita, è meglio costruire dei ponti piuttosto che dei muri. Tutte cose che però ti facevano sentire più grande. E poi c’era lui, il diario, dove le frasi copiate da qualche libro, o da qualche muro, quella voglia di crescere la raccontavano con modelli da imitare, spesso da sognare, sempre da capire perché, a quell’età, cerchi forse più una vita da interpretare piuttosto che vivere la tua. E sul mio diario ce n’erano tante di frasi e di foto. Io sono nato nel ’64 e a partire dal momento nel quale la memoria mi permette di accedere ai ricordi, mi rivedo davanti alla TV a guardare indistintamente corse di auto e di moto rigorosamente in bianco e nero ed a viaggiare con i miei genitori in giro per l’Italia per assistere a quelle gare al di là delle reti dei più bei circuiti nazionali. Cosa non avrei fatto per oltrepassare quelle reti … E già che c’ero, anche io avevo il mio sogno: diventare un pilota. Ma ben presto mi sono reso conto che non bastava avere la tessera di un moto club, la prima me la fecero a tredici anni, o comprare Motosprint tutte le settimane per diventarlo. Un pilota è un’altra cosa ed esserlo è un privilegio riservato a pochi, immaginatevi poi diventare un Campione. Come se non bastasse poi, è indubbio e risaputo che la vita è strana ed a volte sembra prendersi gioco di te o, bene che vada, diciamo che non perde mai l’occasione per metterti davanti a tuoi sogni. Era il 1984 ed io insieme a tutti i miei compagni del V superiore (ITIS), tra un ventaglio di opzioni scegliemmo come meta della gita scolastica di fine anno di andare a Barcellona. Nelle nostre menti ci attendeva una settimana di spensieratezza dove gli elementi culturali alla base della stessa gita, avrebbero ben presto fatto largo a divertimenti ed emozioni varie. La mia passione per moto e motori era al culmine e non ho vergogna a dichiarare che molte volte i sogni, intesi come quelli notturni, avevano come protagonisti Barry Sheene alle prese con Kenny Roberts nell’affrontare l’ultima chicane di Assen, piuttosto che Marco Lucky Lucchinelli o Franco Uncini nelle vesti di Campioni del mondo della 500 saltare sui binari che attraversavano il centro della città di Imatra dove si correva il Gran Premio di Finlandia e dove le balle di paglia erano messe a protezione delle sbarre del passaggio a livello. Ma tornando alla gita in terra spagnola, come non ricordarsi della Derbi che in quegli anni, ma già a partire dalla fine del ’60, spadroneggiava nelle piccole cilindrate con un pilota del calibro di Angel Nieto, e lo avrebbe fatto in seguito anche con Martinez, Herreros e molti altri ancora. Saliti sul pullman parcheggiato dinnanzi al nostro hotel di fronte alla Estaciòn de Francia con destino la fabbrica della Pioneer, la cui sede era nel poligono industriale di Martorelles, iniziammo questo breve trasferimento per giungere ben presto poco fuori dalla capitale catalana. Arrivato alla periferia di Mollet il pullman attraversò un cavalcavia e, giusto il tempo di guardare in avanti, fu un tutt’uno ritrovarmi dinnanzi allo stabilimento della Derbi. In alto, sull’ingresso, campeggiava un alloro enorme che cingeva il nome ed un grande 1. La sorpresa e lo stupore di ritrovarmi lì ed il pensare “Che sogno sarebbe un giorno poter lavorare qui dentro nel loro reparto corse, conoscere tutti i loro piloti, viaggiare per il mondo. Sarei disposto anche a lavare i cerchi e rimboccare la benzina!” , fu un tutt’uno. Non ho mai più dimenticato quel momento e mai dimenticherò quello che provai, esattamente quindici anni dopo, nell’entrare in quello che sarebbe stato in nuovo reparto corse della Derbi, sempre lì, sempre a Martorelles, sempre dentro quello stabilimento. Era il 1999 e già da qualche anno quella mia passione si era a poco a poco trasformata da gioco in lavoro. Agli inizi degli anni ’90, insieme ad alcuni amici dei quali nonostante gli anni trascorsi sono ancora oggetto di giuste recriminazioni per averli trascinati nell’avventura, avevamo appunto giocato alle corse allestendo una piccola squadra, l’Interamna Racing Team, con la quale partecipammo prima al Campionato Italiano della Sport Production e poi a quello GP con Simone Cerasani ma parlando di cose serie, e ringraziando Giampiero Sacchi che mi volle nel suo gruppo già dalla fine del ’95, a partire da quello successivo iniziò la mia avventura mondiale. Subito con Valentino Rossi nella Scuderia AGV, poi arrivò il mondiale vinto nel 1997 e poi, con una squadra in cui molti di noi erano ternani e sempre con Sacchi al comando, giusto alla fine del ’98 venimmo chiamati per far rinascere il reparto corse delle Bolas rojas e firmare cosi il loro alle competizioni mondiali. La Derbi Racing, trasformata poi con l’arrivo del Gruppo Piaggio in DRD Derbi Racing Development, era nata e per me quello che molti anni prima era stato un sogno si era trasformato in realtà! Quel cancello si era aperto ed io ero entrato li dentro, in quella fabbrica, passando sotto quell’ 1 enorme che mi aveva rubato il sonno. Barcellona divenne un po’ la mia seconda casa e tanti ragazzi che vi vivevano divennero miei amici. Di quegli anni in Derbi, sportivamente parlando resta molto. Dallo stesso reparto corse nacque la gemella Gilera 125GP con la quale Manuel Poggiali conquistò il mondiale nel 2001, arrivando poi secondo nel 2002, mentre Youichi Ui, in sella alla Derbi, secondo lo era stato nel 2000 e nel 2001. Poi arrivò la Piaggio e con lei l’Aprilia, arrivò la 250, arrivò Marco ed il mondiale del 2008 e tanti altri titoli iridati sia nella quarto che nella ottavo di litro e sia piloti che marche e poi, arrivò la SBK con la RSV4 e l’avventura tra le derivate di serie. E’ vero, non sono diventato un pilota, le cose sono andate diversamente e le paure, i riti fatti dei soliti gesti nell’indossare la tuta, i guanti, il casco, il modo di guardare la moto con un rispetto che rasenta l’amore, sono rimasti un privilegio riservato ai piloti veri. Ho fatto però mie le gioie per le vittorie, cosi come le amarezze per le sconfitte, che mi hanno regalato Campioni come Vale, Poggiali, Ui, Alzamora, Lorenzo, Locatelli, Simoncelli, Biaggi e tantissimi altri con i quali ho avuto la fortuna ed il piacere di lavorare, ringraziandoli sempre per avere avuto la fortuna di poter condividere quelle emozioni. Può sembrare strano ma anche al di qua del muretto il cuore batte forte e, se cosi non fosse tutto questo, insieme a tanti sacrifici, non avrebbe avuto senso. Conoscerli, guardarli da un po’ più da vicino rispetto a tanti altri ragazzi che forse avevano i miei stessi sogni, ha avuto e continua ad avere per me un valore enorme. So di essere stato fortunato perché il mio, di sogno, si è avverato oltre che essersi trasformato nel mio lavoro, nella mia professione e come disse qualcuno “Fai quello che ami e non lavorerai un solo giorno nella vita!”
Che dire, Miguel aveva ragione: “Conserva i tuoi sogni, perché non puoi sapere quando ne avrai bisogno” … Io ne ho ancora un cassetto pieno!
di Roberto Pagnanini